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EXPO': E'GLIA MÈGLI R' NÀ PIÀTTÈDDA? |
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Ovvero: NUTRIRE IL PIANETA -Troppa ambizione, oppure un'esperienza che potremmo fare tutti?
Scrivere è questione difficile. Checchè se ne veda o se ne legga in giro, scrivere è questione autenticamente difficile. Scrivere di notte, è Luogo Precipuo, gradito e consono ai poeti; farlo di giorno è dato ai più. Mentre, come nel mio caso, quando devi raccontare, partecipando di una gioia, scrivere non richiede un Tempo Opportuno e, nemmeno selettivo pudore! Per quest'ultimo motivo ho preso lo stilo. Troppo preziosa l'esperienza vissuta ieri sera, perché il pennino restasse muto, lasciando, oltremodo ansioso l'imbocco del calamaio e in calma piatta il suo contenuto! “Verba volant, scripta manent.”: ne terrò (spero) debita considerazione. Vi prego, tuttavia, usarmi, comunque, clemenza! Il tema per il quale sto scrivendo è, manco a farlo apposta, tratto da Expò 2015, ovvero il più grande evento sin qui realizzato sull’alimentazione e la nutrizione mondiale. Complici le condizioni atmosferiche tipiche di una giornata “capannal”, si è colta l'occasione per fare, tra amici dediti alla “Piattèdda”, qualche riflessione più rotonda e che non prescindesse dal riscoprire le eccellenze della nostra tradizione agroalimentare e gastronomica, ma senza avere la pretesa dell'esaustività, solo la consapevolezza di evidenziare il rapporto profondo tra uomo-cibo e i fenomeni di socializzazione che da esso scaturiscono. Non ricordo dove, ma sono sicuro di aver letto da qualche parte che il cibo è indicatore di appartenenza culturale, e, nel suo essere oggetto di interazione a tavola, è elemento distintivo di socialità. Portatore, quindi, di differenza sociale ed identità etnica. Sarà pure una ben vestita banalità, ma in essa mi sembra scorgere la declinazione delle relazioni che insistono nella società contemporanea, per la cui mutazione concorrono, sempre di più, una serie di incomprensibili pratiche di produzione (vedi OGM); di inimmaginate velocità di scambio (Le nuove regole sul commercio mondiale – cosa per la quale si sta dibattendo in seno al consesso europeo – speriamo bene!) e di consumo; e, non da ultimi, fattori che riferiscono di territori soggetti a particolari sistemi culturali che sacrificano il loro gene naturale (la deforestazione selvaggia) per soddisfare una domanda da mercato indotto, nel quale la fanno da padrone le holding e le multinazionali. Difficile immaginare oggi che un paesello situato all'interno di un'area appenninica ed impervia, priva di efficienti elementi infrastrutturali, circondata da vaste e fitte aree boscate, quale era Avigliano a metà del XVII Sec., potesse vantare, postuma, di una peculiarità gastronomica fondata su di alimento: Sua Maestà “Il baccalà”, conservato sotto sale e proveniente dalle gelide acque del Mar del Nord: un altro “pizzo di mondo”! Sarà stato per una sorta di reazione “emotiva” o, cosa assai più probabile, per una caratteriale generosità, fatto sta che il mio amico Gennaro Mecca da Filiano ci ha invitati e gustare, presso la sua azienda, il farro, le lenticchie e, i ceci. In uno, i “suoi” prodotti, che produce nella piana di Isca Lunga, dove sono i fondi, che ha ereditato e che coltiva con l'orgoglio consapevole di un padre, secondo il modello gergale della filiera corta ad immediata tracciabilità. Di qui, con l'orgoglio di chi è consapevole che il proprio fare è utile e non futile, e, il tono garbato, quasi dimesso, di chi è avvezzo alla discrezione, Gennaro ci ha riferito di una “sua” pagina sul social F.B., cui ha dato poetico titolo di: “Seminostrani” nella quale illustra le sue attività di produttore e che ho subito visitato. Una mano colorata di terra, la nostra terra, in primissimo piano, era la, pronta ad offrire una manciata di semi: preziose pepite; un giovane virgulto, di un verde innocente, per niente contaminato, si affaccia, mosso dalla leggera folata di Zefiro, ti, ci dice di un futuro... Un bel messaggio! Dopo un breve viaggio, tra il paesaggio mutante e qualche intervallo canoro, intonando, prima, una, poi, tante altre “ vascia-vascia”, eccolo che, dall'altra parte del crinale del Sacro Monte, “prospicia” la Valle di Vitalba; coronata com'è dalle sette cime del Monte Vulture. Giunti, mi sono sentito amabilmente fiondato, insieme a gli altri amici, in quei di Filiano. Una bella veduta d'assieme, in cui ogni volume assume una dimensione morbida, che si adagia, senza supplizio, e si ancora al terreno senza ferire sguardo alcuno: merito evidente di una attenzione civica ed amministrativa, che ha teso alla salvaguardia dell'ambiente e del paesaggio. Ci trovavamo in una di quelle strutture realizzate con pietrame a secco: La càpanna!!!. “A la càpanna... a la càpanna!”. Questa breve, ma intensa, frase dal notevole significato esortativo, ora che mi trovavo proprio la, in quel magnifico posto, mi tornava alla mente. La risentivo pronunciata magicamente con lo stesso tono, la stessa cadenza, da quanti abitavano fuori dal paese, allor quando questi decidevano di rincasare, magari dopo esserci stati per compiere qualche Atto notarile; o di aver partecipato alla Fiera, o ad un funerale, oppure ad un battesimo. Comunque mai prima e mai senza essere passati a “salutare” Zì Mingh r' Àmat, Zì Tòn Ciàccion, Zì Mchèl r Glièr o Màvuharièdd..., col migliore epilogo di un bel canto, forgiato dalla brezza etilica, destinato all'amata, che l'aspettava ansiosa, appunto, nella “càpanna”!. Eccola qua, la Càpanna, che dall'immaginario di allora prende forma e sostanza. Un unico vano “la càpanna”: capiente, con le mura pervase del fumo di faggio, dall'odore agrodolce, lasciato dal camino scoppiettante al di sopra del quale faceva bella mostra di sé un vecchio fucile da caccia, il cui calcio lo aveva calibrato, niente di meno che, Zì Canije Càpural, quando, nel suo negozio bottega, faceva l'armaiolo - per inciso, le cronache dicono essere stato un vero genio nel suo genere - . Ansiose, disposte a file parallele, lunghe, lucide, mazze di legno, erano assicurate alle travi del soffitto, pronte ad assoggettarsi all'imminente prezioso carico di provviste che la festa allo “Scickè” avrebbe fornito con la sua carne, il suo lardo, il suo “ogni che” - perché del maiale non si butta(va) nulla, diversamente da quello che accade oggi, giunti come siamo allo spreco più deprecabile. A terra, in un'area più facilmente raggiungibile, per questo meno eterea, due belle e panciute pignate, stavano a cuocere. Riposte, com'erano state, dalla “Zia Peppina” a coronare il fuoco cangiante del camino: due conchiglie di matto vermiglio, pronte ad offrire le perle contenute appena la padrona di casa, saggiandole, lo avesse creduto. Gennaro, l'amico Gennaro, filianese puro, che, però, non disdegna le sue origini aviglianesi, aveva naturalmente fatto le cose per bene! Da padrone di casa si trasforma in uno di noi. In un solo attimo, come per magia, non c'era più alcuna distanza: a dimostrazione che “rhù mmijèr, nùnn ijè acqua!” che tradotto vuol dire che: un mutato segno amministrativo non inficia la formazione etno-culturale. Indubbia la complicità che si instaura nel condividere il cibo, che è, universalmente, uno dei modi fondamentali in cui si può mostrare, stabilire, mantenere rapporti interpersonali, nel distinguo di ciascuno. Nemmeno ricordavo più gli anni trascorsi da quando Filiano volle divenire Comune autonomo, amministrandosi senza dover più avvertire il peso di Avigliano. Una serata conviviale da non dimenticare. Il convivio: quel suo filo sottile che ri-unisce in una solidarietà cosmica, ristabilendo una relazione tra noi stessi e gli altri. Grazie, Gennaro. Grazie anche per averci fatto mangiare quei tuoi prodotti: preziosi alimenti, profumati come il respiro dei nostri nonni che condividevano convivialmente. |
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inviato il 30/10/2015 |
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da Donato Claps |
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