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RACCONTO DI UN QUADRO |
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Raccontare un Quadro, in quanto espressione di un fare Arte, non è per niente cosa semplice, se si considerano, come si deve e con la dovuta misura, le implicazioni che questa tematica comporta. Farlo, come sto cercando di fare io, che non posseggo relazioni dottrinali di ambito è cosa ardita. Però, al netto della mia specificità culturale, considerando il piacere che provo al cospetto di un'Opere d'Arte, mi appresto a raccontarlo lo stesso, anche perché non ho saputo, potuto e nemmeno voluto sottrarmi dal resistervi. Del resto, come insegna Wilde, non c'è niente di più diabolicamente gradevole che cedere alle tentazioni. In specie si tratta di raccontare il quadro “Paesaggio musico”, del pittore Vincenzo Claps. La tela è contenuta nel catalogo “OPERE”, pubblicato a cura della Regione Basilicata, che ha patrocinato ed inserito una Mostra Antologica di questo artista nell'ambito degli Eventi Culturali Regionali legati a “Matera 2019”. L'Antologica, per chi la volesse visitare, è allestita presso la Pinacoteca Provinciale di Potenza ed è aperta fino al prossimo 15 di aprile. Le opere esposte, con lavori che vanno dal 1975 al 2010, evocano 35 anni di attività artistica. Per la circostanza, un plauso al Centro Studi Politeia di Avigliano è d'obbligo avendone seguito con attenzione e dedizione il progetto. Francamente non so motivare perché la scelta di questo Racconto sia ricaduta su questa tela; certo è che “L'anima, come diceva Aristotele, non pensa mai senza immagini”. Verosimilmente non escludo l'incidenza di qualche remota sacca poetica aleggiante nel titolo, che si agita, spaziando nel mio inconscio e che per la circostanza ha fatto capolino dopo essere rimasta silente per tantissimi anni. Sarà per questo? Chissà! Non lo saprò mai, ma importa poco. Importano molto, invece, le emozioni che mi ha trasmesso e le riflessioni che mi ha sollecitato. Dunque quello? Si, proprio quello! Un quadro antesignano, in cui scorgo il seme di ciò che sarebbe accaduto nell'arte degli anni a venire, quando il pittore, con il suo camice, nel suo studio, con il colore si riprenderà la scena sottrattagli per oltre ventanni dall'Arte Concettuale (di cui fu teorizzatore l'americano J. Kosuth.) in cui non è l'opera, ma l'idea che la sottende ad essere arte. Mi avvio, così, al “viaggio”, aiutato da un'altra tela profetica, che è “Volo”. Ma è il “mio” quadro Paeseggio musico, questo concentrato di sapienza, che mi ha immobilizzato e tolto la parola. Esso è là. Pronuncia gli astri, la loro magnificenza, segnata come autentiche pepite con punti di macchie gialle-oro, come le sue due importanti bande deterse nel candore della sua pagina, la 56 del catalogo. Un quadro spavaldo eppure discreto, cauto, amorevole, ammiccante. Di una verità cristallizzata. Di quelle che l'araldo proclama nelle strette viuzze del tuo, “proprio avvertire”. Mi sono detto che il miglior modo per accogliere la sua portanza - non solo emotiva -, per cercare di comprenderne i “segreti” e la sua densità artistica, è quello di mostrargli empatia. Trasferirsi al suo interno. Cercare di cogliere il gesto dell'artista, immaginarlo quando, reiterato nella sua meccanicità, coi suoi tempi e suoi colori, dà corpo all'opera, trasmettendole una frazione della propria personalità. La tela è datata 1978, un anno che la storia ci consegna come transitorio, in cui si verificano fatti importanti: il sequestro dell'On. Moro, l'elezione di Papa Wojtyla, il Parlamento approva la legge n.ro 192. Fatti che mutano il corso della storia italiana e non solo. Un anno sospeso tra importanza ed equivoco, tra esagerata temerarietà e mancato coraggio. Un anno contenuto in quel decennio che sono stati gli anni settanta: "Gli anni della condivisione, della libertà creativa, del dialogo e della comunicazione". Era questo quello che accadeva fuori dallo studio del nostro pittore, da dove, invece, su di una superficie dalle dimensioni museali, prendava luce questa Opera. Due importanti bande di color oro, insorgono lungo la verticale esterna del quadro. Ascendendo, si chiamano a confinare con lo sfondo nero, dove la forza della materia contenuta le costringe a dilatarsi senza però che cedano nulla alla verticalità, per niente distratta nella sua marcia verso il “sopra”, tanto è la sua forza. Sospeso, appena percettibile nella sua linea di orizzonte, lievemente marcata, c'è il tavolo. Il suo piano si proietta sorretto da differenti architetture. Sono forme dai volumi esili, vibranti. Ben distinte dai carichi di luce ancora di più superfetata dalla evidenziata sinuosità di due dei quattro elementi. E qui una domanda: la quotidianità è sospesa, oppure è impressa in questo oggetto elegante e forte? Nella sua unità colgo la definizione di alterità. Due triangoli in un rombo intersecato da un strumento musicale che si affaccia con una linea coincidente per segnare la sua diagonale maggiore, mentre con quella parallela ripropone il cerchio ascrivibile, il cui modulo è la proiezione della bottiglia. La costruzione geometrica dispone un equilibrio che dagli assi intercettati dei suoi piedi si eleva sino a raggiungere il piano scenico. L'alter, il diverso nell'uguale, che si fa Insieme, sacrificando la sua linea fino a definire l' “isoscelità”. Una espressione pittorico-compositiva riassuntiva, che invita ad assumere atteggiamenti di responsabilità, di accoglienza, di prossimità e di solidarietà. Un quadro da cui si scorge la pronuncia dell’etica dell’altro; sicuramente la “visionarietà” dell'artista, che ha fatto centro! Una bottiglia, la cui diafanità denuncia della sua funzione accaduta, appare svuotata del suo carico di ebbrezza, e, quel lembo di colore giallo che corre dal suo collo nell'arco parallelo a quello delle note, è la sua ultima esalazione. Il suo avamposto è il lungo clarino, riposto dal suo musicista, che il pittore ha ritratto nel suo “non essere più presente”. Manifestatamente evidente è l'effluvio che ancora proviene dal suo meato. Una eco: il ponte tra il materico e il diafano, che le note, nebulizzate nell’arco descritto dal suo contenuto e lasciate andare dallo strumento riposto, descrivono. Un “già detto”? Probabilmente si. Infatti, nulla di nuovo sotto il sole, ma qui viene rielaborato secondo gli straordinari canoni creativi dell'artista. Quella scia di colore, che appare riproposta come una nuova Cometa, non sembra voglia evindenziare le sole sinuosità collinari (anch'esse ancora ed eternamente sospese), ma invitare a pensare il Tempo e di esso cercare di coglierne l'essenza per non sciuparlo, magari in inutili diatribe. Le rette che si sottengono agli astri sono la luce, resa con elementi cromatici che introducono e reinterpretano la spazialità progettata all'interno del quadro. Insomma, un sorprendente allestimento essenziale di luce ed elementi scultorei con cui si affronta la relazione tra il visitatore e il luogo, che diviene un barometro dello spazio. Questo bel dipinto non è l’aria, gli oggetti o la terra. No! In esso v'è rappresentata l’espressione di qualcosa di completo, il cui insieme è la struttura della vita stessa. Un'operazione di astrazione dall’esistenza materiale dell’oggetto considerato unicamente nel suo essere immagine pura. Un quadro precursore che ha una sua, straordinaria portata. Proprio come ha una sua straordinaria portata un’opera d’arte. Anche qui è la struttura dinamica dell’oggetto artistico a rendere capace di simbolizzare nelle forme l’esperienza vitale. Più leggo quei colori e più mi risulta evidente il riferimento visionario che il Maestro ha tradotto, significandolo di ricercata struttura cromatica e saggia modalità compositiva. Una visione dell'Essere prestato all'universo, sempre in bilico tra la fisicità e la spiritualità. Sempre di più mi convinco che il quadro, questo quadro, sia un “autoritratto” la cui proiezione riflette l'impegno difficile e costante dell'artista, che esercita dalla realtà, da dove, senza sottrarsi alle astrazioni della ragione, dà origine alla sua azione creativa, perpetuando il divino principio dell'immanente. |
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inviato il 30/03/2016 |
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da Donato Sabia |
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CURIOSITÀ
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