DALL’ORCHESTRA A PLETTRO “DOMENICO MANFREDI”
«Facile». Facile, si dirà. Ed è terribilmente vero. È facile ritornare alla luce con ordine riconosciuto, dagli scomposti moti della temporaneità invocando il registro della memoria senza sottoporla alla spinta di alcun punto avanzato di fuga. Per questo, oltre la narrazione intima del ricordo, senza occultarne o reciderne le sue spine o i suoi germogli, i suoi virgulti o i suoi ceppi, avverto di suggerirla, ma in uno solo dei suoi segmenti, così come mi ha suggerito di fare la locandina che ho sottomano. La vedo. La sua impaginazione ha taglio austero, quasi rigido, ma non per questo poco importante. I suoi due terzi ritraggono la scena da dove traguardo riflesso il probabile punto di un tempo mediato. Considero. Una facciata, arredata col gusto degli anni ’70, con la complicità della sua applique, infrange la sua anonimità e diviene una delle pareti dello spazio nella memoria palesata: si tratta del vecchio e glorioso “Cine Bar Santa Lucia”, dove, in tanti, si è celebrato momenti importanti di crescita fino a quando non ha "fermato" le sue porte, iniziando, indolente, un percorso coinciso di decadenza e desertificazione che mai avremmo voluto ci definisse. Adesso, però, qui, c’è lui: il Maestro. È Domenico Manfredi, uno dei punti di riferimento culturale che abbiamo avuto e che si è speso col piglio dell’onestà in differenti forme d'arte e senza cedere nemmeno per un attimo al vacuo clamore dell’autoreferenzialità celebrativa: esercizio cui, invece, ci costringe tanta parte della cronaca locale, rappresentando comparativamente, con tristezza, la dimensione bi temporale nel suo succedersi dialettico e il costume della mutata società nel corso di così breve tempo. Il Maestro è impeccabile. Sempre impeccabile. Innatamente impeccabile il Maestro Manfredi; indipendentemente dal suo abito di fine gessato dal colore bruno andino e dalla sua inseparabile borsa di cuoio. Impeccabile anche con quella sua camicia con le maniche dal taglio “spudorato”, che, impudiche, coprivano appena i suoi deltoidi. Impeccabile, con gesti distinti, precisi di amorevole cura, attraverso cui, molto più del suo vecchio orologio, dettava i tempi giusti, trasferiti agli allievi impegnati nel solfeggio prime che nell’esercitazione musicale. Così lo ricordo: seduto di fianco al mio amico Franz. Suggerisce movenze e cadenze. Mima. Le dita, carezzando i tasti d’avorio o pizzicando le corde della viola, sollecitano l’armonia a librarsi, altrimenti costretta, senza destino, al buio della cassa armonica. Adesso, però, il Maestro Manfredi è qui. Dirige. Ha il capo appena chino, lo sguardo attento alla nota incisa, indifferentemente sul rigo o in quello spazio, pronta a farsi accordo, che vuole rivolto, risolto, percepito di unità armonica: parte di un insieme cognitivo unico, che spinge perché si consideri nella sua interezza semantica. La verticalità, che ha impresso alla sua bacchetta, segna l’attimo preciso della battuta. Probabilmente l'ignoto fotografo non immaginava che stesse "lavorando" sulla distanza, stabilendo un ordine nello spazio per trasformarlo oltre il "luogo del vanitoso ricordo". Più del cerchio grafico, che dirompe con i suoi cardinali riferendo il segmento di un periodo preciso, enunciativo di una passione; di un momento unico nella sua ciclicità distinta, mi catturano questi due elementi strutturanti, che sono la verticalità e movimento; forse, meno evidenti, riflettono non più la vanità, ma la percezione del tempo e dello spazio, che muove e si fraziona. 1956 2016 è la "magia" rivelata. Eccolo, un segmento di materia temporale, importante, ma anche modesta: quasi nulla, o, poco più di tanto. Di certo avverto la contrapposizione fra storia e memoria, che si fa materia evocatrice e antagonista del passato, e che, adesso, ritorna volgendo ad una rappresentazione astratta e fortemente emozionale.