Le chiamano Badanti, un termine che sminuisce il duro lavoro, la fatica fisica e morale che queste persone svolgono. Sarebbe più giusto definirle assistenti familiari perché questo fanno in realtà. Assistono, curano, donano compagnia ed affetto umano ad anziani, spesso malati terminali. Li chiamano extracomunitari, spesso dimenticando che un rumeno o uno slovacco sono comunitari mentre uno svizzero o uno statunitense sono extracomunitari. Sarebbe più giusto chiamarli ospiti stranieri che vivono, lavorano, pagano le tasse come ogni cittadino italiano. Anzi qualche italiano non lo fa, ad essere sinceri e politicamente corretti. La comunità degli ospiti stranieri ad Avigliano è di circa 170, 30 extracomunitari. Un numero considerevole, di solito ben integrato con la cittadinanza locale. Considerati dei grandi lavoratori, nessun episodio degno di cronaca nera, salvo qualche litigio familiare, che capita in tutte le famiglie. Certamente sull’integrazione c’è sempre da lavorare, anche per far conoscere meglio diritti e doveri del nostro ordinamento, aiutare nell’apprendimento della lingua italiana, supportare quei gruppi etnici che per lingua e cultura possono avere più difficoltà in questo processo. Un lavoro svolto assieme da amministrazione, scuola, volontariato e gli stessi ospiti stranieri. Riguardo la scuola, solo nell’istituto Carducci – Morlino ci sono 11 studenti stranieri, la maggior parte di origine rumena ma anche Equador e 3 indiani. Coordinamento Donne è l’associazione che sta lavorando sull’integrazione, con una notevole partecipazione dei “Nuovi Aviglianesi”. Questa estate dopo l’iniziativa “Non più ospiti” un viaggio alla scoperta delle bellezze lucane, fatto assieme da famiglie aviglianesi e residenti stranieri, abbiamo incontrato un gruppo di signore di varie nazionalità.Beata è polacca, lavorava nella sanità poi ha deciso di voler cambiare vita. Ed è arrivata in Italia. Da impiegata a badante. Arrivata da Przenorsk nel 2003, le prime difficoltà con la lingua, ormai superate. E poi la nostalgia della propria terra, sicuramente. Ed una vita diversa, durissima, anche solitaria a volte. Beata ha fatto arrivare la sorella Dorota, anche lei era impiegata. Insomma donne con alto grado di scolarizzazione, che parlano più lingue. Spesso si parla di badandi, ma poco si conosce poi della vita che fanno. “ Un lavoro duro, spesso accudiscono malati terminali” ci dice Mimma D’Angelo, la presidente “ si crea un legame affettivo e porta anche ad un travaglio umano. Quando la persona scompare, la sofferenza di queste ragazze è enorme.”. Racconta Beata “ il nostro lavoro non è solo assistere gli anziani, ma anche lavarli, cambiarli, farli mangiare. Insomma tutto.” Appena arrivarono, gli stipendi erano sui 500 euro, vitto e alloggio, ma a nero. Molte erano “clandestine”. Lavoro a tempo pieno, 2 ore di libera uscita. Ora sono tutte regolari, residenti e comunitarie la maggior parte. Arrivavano per passaparola, candendo anche in sfruttamento, chi aveva il contatto per trovare il lavoro, pretendeva una mensilità come “risarcimento”. Una di queste è stata allontanata dalla comunità rumena, la più numerosa. Quelli residenti ad Avigliano sono quasi tutti parenti tra loro. Vivono la maggior parte nel centro storico, l’hanno rivitalizzato. Alina è qui dal 203, ha seguito il marito. Sono di Bacau e hanno un figlio Luca, che è nato ad Avigliano. “ Quando è nato Luca” ci racconta Alina “ tutte le persone del quartiere sono venute. Non mi hanno lasciata mai sola.” Questo è il volto dell’integrazione. Episodi di intolleranza ce ne sono stati, pochi e minimali. Anche da far ridere, come chi dice che d a quando ci sono i rumeni non si trova più parcheggio. Certo nulla confronto a dichiarazioni di esponenti della Lega Nord, anche verso noi italiani del Sud. Oppure la battuta di una signora: ” Meno male che voi rumene siete tutte sposate e con mariti, così siamo al sicuro.”. Perché quasi tutti i rumeni hanno famiglia, molti figli sono nati qui.La signora Alina ha certo avuto difficoltà racconta ridendo “ Non capivo il dialetto, non ci riuscivo. Ora lo parlo, mi piace e conosco anche tutte le canzoni tradizionali.”. Emigranti in una terra che fu patria di emigranti per sfuggire alla povertà ed ora patria di emigranti per sfuggire alla disoccupazione. Questo dimenticato. Alina era piccola, quando cadde il regime di Ceauşescu, ma le sono rimaste impresse le difficoltà passate, la disoccupazione dilagante, l’incertezza del futuro. Beata è nata, quando ancora esisteva la cortina di ferro, ha vissuto l’epoca di Solidarność e di Lech Wałęsa e ricorda benissimo la crisi, la povertà, la scarsità di risorse che noi “atlantici” diamo per scontato.