A La Florida, quartiere residenziale di Santiago, la sombrereria Caffi la conoscevano un po' tutti: notabili, viandanti, gringos e tanos. Il proprietario era tale Alberto Caffi, un italiano scappato via dalla miseria del meridione per cercare fortuna in Sudamerica. C'erano una famiglia da mantenere e delle bocche da sfamare. Fu così che, un giorno di primavera, capelli impomatati e redingote bluastro indosso, s'infilò sulla prima nave per il Sudamerica. Biglietto di terza classe, per sè e la famiglia: pazienza se si sarebbe stati stipati e alla mercè di ogni qualsivoglia razzia. Ci sarebbe voluto un mese per effettuare la trasvolata dell'Atlantico, quella sterminata e chiassosa distesa d'un blu dipinto di blu che separa l'Europa dal Subcontinente.
Sbarcati in Cile, i Caffi non s'erano persi d'animo. La voglia di fare e l'olio di gomito, a differenza dei denari, non mancavano: dopo pochi mesi di ambientamento misero su un'attività commerciale. La signora Caffi, sempre raffinata e elegante, a dispetto delle vicissitudini econonomiche, era una gran appasionata di moda. Anche se la disastrata situazione finanziaria della famiglia non lo consentiva, di soppiatto, acquattata dietro qualche angolo, si lasciava sedurre da qualche rivista modaiola, maliardamente esposta sul banco dell'edicola di quartiere. Ad affascinarla maggiormente erano i copricapi. Di tutti i tipi, di tutti i colori, di ogni qualsivolgia manifattura. A cupola, a calotta, o senza bordura. Quei ricami ondeggianti, quelle fantasie a fiori o quei delicati ghirigori intarsiati a mano, la facevano letteralmente impazzire. E così convinse il marito: a La Florida si sarebbe aperta una sombrereria, un dispaccio di cappelli a buon mercato per signori e signore. Fu un successo: da tutte le parti di Santiago la gente accorreva per acquistare un copricapo dal sig. Caffi. C'era chi preferiva colori rallegranti, chi invece, in odore di funerale, prenotava fantasie lugubri al nero di seppia o chi ancora, dopo averne provate più di mille, ed aver fatto spazientire il padrone di casa, aveva pure l'irriverente coraggio di sbattere l'uscio e dissolversi senza aver portato nulla con sè. Più che un negozio, stava diventando sempre più luogo di adunanza. Si trovavano tutti e tutto alla sombreria di Cozzi: si leggevano giornali, si tracannavano vini di dubbia qualità allo scoccare de le 5 de la tarde e si dibatteva di sport.
Cosi anche il pomeriggio del 5 Novembre 1910. Erano accorsi tutti: il sig. Caffi doveva proporre un qualcosa di veramente importante. L'appuntamento era per le 3 e 30 de la tarde: nessuno avrebbe dovuto mancare. Furono tutti puntuali. Impeccabili nelle loro giacche di liso e con gli immancabili sorrisi sornioni di chi la sà lunga, si presentarono anche Ruggero Cozzi e Amato Ruggieri. Erano i due più cari amici del proprietario. Insieme al sig. Caffi erano cresciuti e s'erano fatti uomini. Avevano condiviso respiri e sogni durante la passeggiata sull'Atlantico ed insieme erano soliti andare a messa la domenica. L'idea era semplice, ma geniale: Caffi chiese loro di partecipare alal fondazione d'un sodalizio sportivo. I due furono entusiasti. Strizzati i baffi a manubrio e lisciate per bene le giacche, quasi a voler rendere immortale il momento, si avvicinarono al tavolo. Brandirono un pennuto calamaio, intinsero nell' l'inhiostro e firmarono. Prima Cozzi, poi Amati. Sopra c'era la firma di Caffi. Un soffio di brezza dissacrante fece rivoltare la pagina. Ma ormai era fatta: il Cycling Club Audax Italiano era realtà. Si sarebbero occupati di ciclismo: daltronde biciclette e pedali erano le passioni dei fondatori. Poi, nel 1917, la svolta: si istituì anche una sezione calcistica. E, quattro anni più tardi, si sarebbero spalancate anche le porte ad atletica, pugilato nuoto e motori. Ormai anche la denominazione del club era diventata anacronistica. Il maquillage non si fece attendere: dal 1921, a La Florida, furoreggia il Club Audax Sportivo Italiano.
Fonte: Vavel