NON SOLO SUPERGA: L'ELENCO DI TUTTI I PIÙ NOTI DISASTRI AEREI DEL MONDO DEL CALCIO
Jimmy Murphy, il fido assistente di Matt Busby, quel giorno non era presente. Indaffarato com’era a selezionare giovani virgulti per la selezione gallese, impegnata nelle qualificazioni ai mondiali del ’58, si era perso quella serata. Al JNA di Belgrado, i Red Devils erano stati in vantaggio di tre reti, prima di subire la veemente rimonta della Stella Rossa. Ma poco importava: grazie al 2-1 di Old Trafford, sarebbe stato il Manchester United a sfidare il Milan nelle semifinali di Coppa dei Campioni. E’ la sera del 5 Febbraio 1958. In attesa del volo di ritorno, i calciatori inglesi ingannano l’attesa nei più svariati modi: c’è chi gioca a carte e chi telefona a casa le consorti, chi finisce articoli per i giornali e chi si rolla una sigaretta. Poi, finalmente, si parte. La società non ha badato a spese e, per il charter di rientro, ha noleggiato un Airspeed Ambassador. Alla cloche c’è James Thain, pilota di comprovata esperienza. E’ tutto pronto. L’aereo è sulla pista di Belgrado. Il comandante è già in cabina.
Ma non si può partire: John Berry, sbadato, ha smarrito il proprio passaporto. Lo ritrova dopo un’ora. Questa volta si parte. A bordo quarantaquattro passeggeri più i membri dell’equipaggio. Il velivolo, intitolato a William Cecil, primo barone di Boughley, si libra nei cieli jugoslavi, prima di fare una breve ricognizione a Monaco di Baviera. Un rifornimento e poi via verso la terra d’Albione. Ma sulla pista dell’aeroporto di Munchem-Riem, c’è un sottile strato di neve sciolta. Forse non si può decollare. Ma, temerario, Thain, non ha voglia di desistere. E prova a decollare. Due volte. Si accendono i motori, l’apparecchio inizia a rombare, ma il gigante d’acciaio non riesce a volare. Il motore, surriscaldatosi, proprio non ne vuol sapere: a questo punto sarebbe meglio rinunciare.Thain però è determinato. Vuole fare, a tutti i costi, un ultimo tentativo. E studia un piano per la manovra: l’idea è quella di scongiurare il surriscaldamento del motore sinistro, limitandone o, anche, ritardandone l’accellerazione. Esiste però un’incognita: con l’accellerazione ritardata, per eseguire la manovra, occorre battere un tratto di pista vergine, rimasto inesplorato quel giorno dagli altri velivoli.
Si riaccendono i motori. Le mani di Thain sono ben salde sulla cloche, mentre gli occhi tutti sono rivolti alla pista. Le perplessità trovano conferma: rimasugli di neve sciolta, che velano la porzione di pista alternativa, ostacolano il decollo. Ma, per un dietrofront, ormai è troppo tardi. L’Air Ambassador sfreccia a 217 km/H, poi, nella parte finale, la velocità cala fino a 194 km/h. I giri del motore sono troppo pochi per poter volare. E la pista, nella visuale di Thain, si assottiglia sempre più: non c’è spazio per interrompere il decollo. Inesorabile, alle 15.04, arriva lo schianto. Un boato scuote Monaco e i cuori degli sportivi di tutto il mondo. L’Airspeed entra in collisione con una casa, fortunatamente vuota. L’ala e la coda vengono tranciate di netto, mentre la cabina di pilotaggio impatta con un albero. Il velivolo prende fuoco. Tra calciatori, giornalisti e membri dell’equipaggio, periscono 23 dei 44 passeggeri. Il Manchester United è decapitato: perdono la vita sul colpo, Geoff Bent, Roger Byrne, Eddie Coleman, Mark Jones, David Pegg, Tommy Taylor e Billy Whelan.
Duncan Edwards, detto the Tank e astro nascente del calcio britannico, prova a resistere. Riporta diverse fratture scomposte alle gambe e alle costole. Ha i reni quasi spappolati. Ma non molla. Lo sdraiano su una barella e lo trasferiscono d’urgenza al Krankenhaus Rechts. Anche se convinti di un suo prematuro addio al calcio, i medici, almeno in un primo momento, si dicono ottimisti sulla sua guarigione. Edwards, dal canto suo, si aggrappa alla vita e al calcio. Galleggiante tra la vita e la morte, spalanca le pupille e, a Jimmy Murphy, chiede l’orario della prossima partita con i Wolves. Il secondo giorno di ricovero, però, le condizioni peggiorano. I medici fanno di tutto per salvargli la vita: tentano anche con l’ausilio di un rene artificiale. Ma è peggio: l’organo artificiale riduce la capacità di coaugulazione del sangue, provocando emorragie interne. Due settimane più tardi, l’agonia del carro armato, termina: Duncan alza bandiera bianca al destino il 21 Febbraio 1958.
Sono passati nove anni, ma le lancette paiono tornate indietro al 4 Maggio del 49', quando, i sogni del Grande Torino, di ritorno da Lisbona, si disintegrarono nel tremendo impatto con la collina di Superga. Quelle dei granata e dei Busby Babes, però, benchè le più note e menzionate, non sono state le uniche sciagure aeree ad aver spazzato via squadre leggendarie.
Tre anni dopo Monaco, nel 1961, ad essere traditi da gravità e correnti ascensionali, sono i cileni del Green Cross. Di ritorno da Osorno, dove hanno affrontato la compagine locale, il Provincial Osorno, in una gara di Copa Chile, i calciatori del Green Cross, si preparano a far rientro in quel di Santiago. Ma c’è un problema: un solo velivolo non è sufficiente per ospitare la nutrita rosa del Green. Allora il collettivo viene frazionato: in pochi scelgono il primo volo, mentre, per questioni di comodità, sono in tanti ad esprimere la propria preferenza per il secondo. La decisione sarà fatale. Dopo appena un’ora ed un quarto di volo, dalla cabina, l’equipaggio avverte il pericolo, rappresentato dal ghiaccio, e contatta la torre di controllo: chiedono di poter volare ad un altitudine minore. Non è ancora un Mayday. Dalla sala di sorveglianza di Santiago non accordano il permesso: se il Douglas DC-3, di proprietà della compagnia aerea LAN, volasse ad una quota minore, entrerebbe in rotta di collisione con un altro velivolo. Terminata la comunicazione, cala il silenzio. Il velivolo si schianta con il Monte Lastima, nella catena montuosa del Nevado de Longavi. Dei resti nessuno ha più notizia. Almeno fino al 2015, quando un gruppo di alpinisti, capitanati da Leonardo Albornoz, li ha ritrovati ad una quota superiore ai 3000 metri.
Diciotto anni più tardi, a seminare morte e disperazione, sono ancora una volta i cieli europei. E’ l’11 Agosto del 1979, quando nel firmamento stellato di Dniprodzeržyns’k, due Tupolev, della compagnia aerea Aeroflot, entrano pericolosamente in rotta di collisione: uno è decollato da Celjabinsk ed è diretto a Chisinau, mentre il secondo deve coprire la tratta Donetsk-Minsk. Avvistata la minaccia sui radar, dalla torre di controllo tentanto di sventare la tragedia. In fretta e furia cercano di stabilire una comunicazione con il pilota di uno dei due Tupolev, precisamente il CCP-65735. Dall’altra parte, qualcuno porta la trasmittente alal bocca e risponde. Il controllore intima al comandante di salire a novemila metri. La risposta è flebile: tanto basta però per rasserenare il preoccupato funzionario aeroportuale. A rispondere, purtroppo, è però un pilota di un altro aereo. L’incidente è inevitabile. Non sopravvive nessuno: periscono centosettantotto persone, tra cui l’intera squadra uzbeka del Paxtakor, diretta a Minsk per disputare una gara di campionato.
La lunga scia di morte, però, non è ancora terminata. Il nuovo capitolo di questo macabro romanzo, si scrive l’8 Dicembre 1987. Siamo in Perù, a Pucallpa. L’Alianza Lima, club egemone in quegli anni, ha appena giocato e vinto, grazie ad una rete di Carlos Bustamante, la gara di campionato che la vedeva opposta al locale Deportivo Pucallpa. Triplice fischio finale, una doccia veloce, poi il torpedone dei Potrillos si dirige all’Aereoporto Internazionale Capitan FAP David Abenzur Rengifo. Ad attenderli c’è un charter organizzato per l’occasione dalla Marina Militare del Perù. Oltre ai giocatori salgono la fatidica scaletta anche alcuni giornalisti e tifosi. Appena decollati, i due piloti, Edilberto Villar e Cesar Morales, peraltro poco avvezzi al volo notturno, si accorgono che qualcosa non va. Daltronde non è una novità: l’apparecchio non ha beneficiato di un adeguata manutenzione e, come se non bastasse, la strumentazione di bordo ha già fatto le bizze in passato. Alle 20:05 il primo contatto con la torre di controllo di Lima: i piloti chiedono di poter atterrare all’aeroporto “Jorge Chavez” di Lima. Ma non ci sono le condizioni di sicurezza necessarie per una corretta procedura d’atterraggio: la pista è scarsamente illuminata. Nonostante tutto, però, dalla torre alzano il pollice. E il Fokker F27 inizia la discesa. In preda al panico, i piloti non riescono a mantenere la freddezza, necessaria in questi casi. Incomprensioni, malintesi, tentennamenti. La manovra è errata: il volo s’inabissa nell’Oceano Pacifico, a largo di Callao. Muoiono tutti, tranne uno: il miracolato è proprio il pilota.
Europa, Sudamerica, ma anche Africa. Le sciagure aeree non risparmiano neanche il Continente Nero. E’ il 27 Aprile del 1993. La nazionale zambese sta volando in direzione di Dakar, dove è attesa per disputare una gara di qualificazione ai mondiali statunitensi dell’anno successivo. Viaggiano a bordo di un Havilland Canada DHC-5 Buffalo, messo a disposizione dal servizio militare zambese. Prima di arrivare a destinazione, sono previsti però tre scali per il rifornimento: il primo a Brazzaville, il secondo a Libreville e il terzo ed ultimo ad Abidjan, in Costa d’Avorio. Come stabilito, il velivolo si ferma a Brazzaville, Congo, per la prima ricognizione. Qui si hanno le avvisaglie di un epilogo nefasto: si manifestano i primi problemi al motore. Ma il pilota, che giusto un giorno prima, aveva già trasportato la squadra dalle Mauritius, valuta la situazione e decide di ripartire. Una sottovalutazione del rischio che costa la vita a trenta persone. Appena librati in volo, il motore sinistro prende fuoco. Il pilota tenta una disperata manovra di salvataggio, ma commette un altro errore: probabilmente tratto in inganno da una spia difettosa, spegne il motore destro, causando la totale perdita di potenza dell’aereo. Inizia la picchiata: il Canada DHC-5 s’inabissa a largo del Gabon. Con sè, tra passegegri ed equipaggio, spirano trenta persone: nessuno riesce a scampare alla tragedia.