1979, un baluginio di sole fa capolino tra le nubi cariche di piombo che, minacciose, hanno solcato i cieli della penisola italica da Piazza Fontana in poi. Avigliano non è certo immune da queste tensioni e da questo stato di depressione sociale che permea tutti gli ambiti della vita. Lo sport ed in particolare il calcio, sono gli strumenti di cui gli aviglianesi si servono per affogare le ansie verso un futuro dai contorni poco nitidi. Il calcio diventa una valvola di sfogo, una panacea che, seppur temporaneamente, lenisce i tormenti dell'animo. Quell'anno il Comunale di Avigliano è sempre gremito in ogni ordine di posti, i trasognanti tifosi granata agghindano le balaustre del tifo con stendardi, striscioni e sogni. Il rullo dei tamburi è una melodia che giornata dopo giornata scandisce la marcia dei giocatori in campo. Lo stadio è un carnevale di suoni e colori, contenitore dei sogni e delle speranze di emancipazione di un intera società. La voglia di sognare è la forza motrice che, dopo anni di catalessi, si risveglia e decide finalmente di prendersi il proscenio. La stagione è esaltante, l'Avigliano Calcio dopo una lunga cavalcata arriva a giocarsi lo spareggio-promozione contro l'Aquila, formazione abruzzese di buona caratura tecnica.
Avigliano, 3 Giugno 1979
E'suonata la sveglia?. No, forse è soltanto uno dei miei soliti inganni mentali per ridestarmi. Non riesco proprio a dormire sapendo che domani a Cassino i miei amati colori granata si giocheranno contro l'Aquila la promozione in serie C2. Ma cosa odono le mie incredule orecchie. Ce l'ho fatta, l'ho pronunciato, da scaramantico incallito quale sono non avevo mai avuto il coraggio di farlo prima. Però sai, metti che non si ripeta più tale occasione, voglio assaporare fino in fondo il dolce retrogusto di quella affascinante sigla alfanumerica. Da un pertugio della tapparella dei fasci di luce irriverenti penetrano nelle mie iridi. Bussare no? Ma che importa sono talmente felice del loro arrivo che chissenefrega delle smancerie e dei combenevoli. Sono stati un pò irruenti lo ammetto, quasi mi hanno accecato, ma li perdono in fondo potrebbe essere la luce del giorno più glorioso della storia dell'Avigliano Calcio. Faccio in fretta colazione con una frittata agli asparagi, preparatami con cura da mia madre la sera prima e poi di corsa a riempire lo zaino di stendardi, vessilli, sciarpe e qualunque altro ammenniccolo granata che mi capita per mano. Prendo anche una sciarpa del Toro, reliquia che mio fratello juventino ha scippato ad un suo collega granata in occasione di un derby della Mole. Tanto chi vuoi che se ne accorga. Mi fiondo giù per le scale e in un baleno sono nell'auto che mi porterà alla stazione dei pullmann. Alla guida c'è mio padre: omaccione alto, corpulento e con un colorito porporino sulle guance, con tutta probabilità la cicatrice che i bicchierini di troppo gli hanno lasciato in eredità. Con tono burbero e altero mi invita ad allacciarmi la cintura di sicurezza, poi finalmente siamo pronti e si parte. Durante il tragitto un gatto nero corvino attraversa irriverentemente la strada. Che sia una premonizione, un segno di sventura? Ma no, daltronde non ho mai capito questa stolida superstizione metropolitana che vede la gente accanirsi contro queste povere bestiole. Mio padre dopo aver praticato il solito rituale sfregandosi rapidamente le parti poco nobili riprende la guida. Wow, siamo arrivati. Il piazzale è pieno di trepidanti tifosi tutti con indosso l'uniforme granata d'ordinanza. E' tempo di scendere e mescolarmi a loro. Un ragazzo riccioluto che ha su per giù la mia stessa età mi viene incontro. Si chiama Paolo, è l'autista del bus che ci porterà a Cassino. Con un cenno mi comunica quale sarà il mio posto a sedere. La corriera è molto spartana, sul cruscotto fa bella mostra di sè un crocefisso in legno, tant'è che penso bene di rivolgergli una preghiera, mischiando così sacro e profano. Salgono tutti, il borbottio del motore comincia a riecheggiare. Capisco che siamo partendo. I canti dei tifosi sono la colonna sonora del viaggio, le mie corde vocali invece non ne vogliono sapere e così inganno il tempo leggendo un buon libro di Tommaso Moro. Il titolo è Utopia, già proprio quella che stiamo inseguendo. Dopo tre ore di viaggio, o forse sono quattro, la concezione del tempo mi ha totalmente abbandonato, arriviamo a Cassino.
Cassino, 3 Giugno 1979
Finalmente, mi ero stancato e poi dentro quel pullmann la canicola mi stava uccidendo. Mi appoggio su una panchina avvolta in un abbraccio di ombre degli alberi, divoro al volo un panino e poi sono pronto per incamminarmi verso lo stadio. In prossimità del campo sportivo le nostre coscienze vengono profondamente scosse dalla notizia della morte di tre tifosi aquilani. I nostri colleghi rossoblu purtoppo non sono riusciti a sopravvivere ad un incidente avvenuto all'altezza di Sulmona. In quel momento vorrei prendere tutto e tornarmene a casa. Non esiste giocare una partita di pallone dopo un avvenimento così tanto funesto. E' giusto che il calcio si fermi penso, ma poi col dolore nel cuore e con le lacrime agli occhi prendo posto sugli spalti. Il sole batte forte, esattemente come il cuore. Le ringhiere di ferro sono talmente calde che si rischia di ustionarsi. Siamo mille o forse anche più puntini granata disseminati sulle gradinate del Gino Salveti, questo il nome di battesimo dell'impianto cassinese. Loro sono il triplo di noi, sono abituati a questo tipo di partite. Le gambe cominciano a tremare e la paura prende il sopravvento. Carmine Colangelo con i suoi baffoni beat viene a caricarci sotto lo spicchio di tribuna a noi riservato. D'un tratto la paura lascia spazio al coraggio. L'arbitro fischia l'inizio della contesa e sono già fiero di poter dire un domani "Io c'ero". Nemmeno il tempo di cominciare che già i nostri prodi mettono alle corde i più blasonati avversari. Le urla di Di Pietro si levano al cielo copiosamente. Guardo l'orologio sono passati appena tre minuti di gioco quando Di Gennaro si inarca in area e colpisce la palla di testa. Tutti noi gridiamo al goal, ma è solo un'effimera scarica di adrenalina. Il portiere Oddi con un colpo di reni incredibile riesce infatti a deviare la traiettoria dei nostri sogni. Niente paura dico tra me e me, quasi in un rituale di autoconvinzione. Se giochiamo così è solo questione di tempo. Prima o poi capitoleranno. Mineccia, allampanato e talentuoso trequartista sembra darmi ragione quando servito splendidamente da Di Modugno lascia partire un gran tiro, ma anche questa volta le nostre speranze si infrangono su Oddi. Pare proprio che questo Oddi voglia interpretare il ruolo dell'antagonista cattivo nella nostra favola. Penso però se è una favola, allora ci sarà il lieto fine. Passano i minuti e pian piano l'Aquila esce dal suo torpore e comincia a tirar fuori gli artigli. Tarantelli con una violenta conclusione mancina fa vibrare il palo della porta difesa di Benedetto. Io guardo il cielo e ringrazio. Che sia anche questo un ulteriore segno divino prodromico alla nostra vittoria? Nemmeno il tempo di cullare il pensiero che la giacchetta nera, il signor Baroni di Macerata, decreta un calcio di punizione per gli abruzzesi. Sul punto di battuta si presenta un ragazzo dai polpacci marmorei che solo a guardarli incutono terrore. Rocca, questo il suo cognome, lascia partire un tiro dinamitardo; Benedetto non trattiene e purtroppo per noi il più lesto di tutti in area è Militello, lesto ad insaccare come un avvoltoio. E' una mazzata tremenda, una sensazione di sconforto e di incredubilità si impadronisce in poco tempo dei nostri cuori. Siamo sotto, il sogno sembra svanire, ma in fondo c'è ancora un secondo tempo da giocare. Io che sono positivo per natura, raschio il fondo delle mie riserve di ottimismo per approciare col giusto umore al fischio d'inizio della ripresa. Quando i nostri escono dagli spogliatoi per il secondo tempo capiamo subito che la favola è finita. I nostri paladini sono in balia degli avversari. L'Aquila fa di noi ciò che vuole, gli abruzzesi si divertono a giocare al tiro al bersaglio; tuttavia non riescono a chiudere la pratica e in noi la pur flebile fiammella della speranza rimane ancora viva. Speranze che evaporano inesorabilmente quando con l'Avigliano sbilanciato in avanti intento a trovare il goal del pari, Militello approfitta di un grossolano errore di Martina per trafiggere ancora una volta Benedetto. Il triplice fischio finale risuona come una condanna, il sogno è svanito o così dovrebbe essere. Mi volto e osservo persone che anzichè disperarsi hanno negli occhi una luce nuova. Perchè? Abbiamo perso dovremmo star qui a piangere penso. Poi però capisco che quel giorno gli aviglianesi sono tornati a sognare, hanno finalmente liberato la fantasia che da da troppo tempo marciva nelle carceri della razionalità. Sono tornati a respirare i sogni e non c'è aria migliore con cui saziare polmoni in astinenza da tanti, troppi anni.
Questa storia è basata su fatti realmente accaduti, anche se i personaggi e le vicende personali legate agli stessi sono del tutto fittizie. Questo è il modo che ho scelto per ricordare il trentacinquesimo anniversario di quello che fino ad oggi è il punto più alto raggiunto nella storia dell'Avigliano Calcio.