THE CUP WAS LET OUT OF ENGLAND: LA FAVOLA DEL CARDIFF
Nel breve tragitto dalla stazione al municipio, ubicato dalle parti di Cathays Park, forse intimorito da tanto entusiasmo, chiasso, lanci di ghirlande e scene di giubilo simili, Trixie, magnifico esemplare di gatto nero, aveva preferito starsene tra le mani, sempre feconde d'affetto, del suo padroncino. Su quel pullman scoperto, circondato dalla folla in delirio, il piccolo trovatello di Hughie Ferguson, assurto a talismano del club, proprio faticava a sentirsi a suo agio. Da tutte le parti la gente, assatanata, cercava di entrare in contatto con i calciatori. C'era chi, di soppiatto, approfittava di quei rari momenti di distrazione delle forze dell'ordine per sgusciare via e catapultarsi nel bel mezzo della strada, impendendo al bus di proseguire. Alcune donne scalmanate, invece, fingevano di mobilitarsi in una direzione, salvo poi dirigersi in quella opposta: obiettivo era quello di ingannare i rigidi controllori, avvicinarsi, sprezzanti del pericolo, al bestione di lamiera rossa, per poi inviare, con un armonioso movimento delle mani, dei simpatici e candidi bacetti agli eroi, perchè cosi quella gente li identificava. Altri, più astuti, ai confini dello sciacallaggio, avevano messo su un autentico giro d'affari. Complice il vento: le folate irriverenti, infatti, facevano scivolare giù nel torrente i copricapi dei signori e delle signore appollaiati lungo le sponde del placido corso d'acqua. Era qui che alcuni mocciosetti, dietro lauta ricompensa in denaro, si offrivano di tuffarsi nel fiume per recuperare i preziosi cappelli che, altrimenti, sarebbero stati ineluttabilmente trascinati via dalla corrente. Intanto dal pullmann, il capitano, lo sdentato Fred Keenor, immancabile sigaretta mordicchiata tra le labbra, cosi come aveva fatto al bordo del treno, sollevò con orgoglio la coppa appena vinta e la diede visivamente in pasto a quella gente letteralmente ubriaca di gioia. Provocò un sussulto: forse anche i sismografi registrarono qualcosa.
Quasi contiguamente a quella alzata di coppa, il ventre del pullmann sbuffò, tanto da far spaventare anche Trixie che, sgattaiolando in quella selva di gambe e mani, e saltellando acrobaticamente da una clavicola all'altra, pensò bene di infilarsi all'interno del trofeo: evidentemente era quello l'unico posto in cui si sentiva al sicuro. Era quello l'ultimo incrocio. Poi, finalmente, la sagoma imponente della torre dell'orologio della City Hall, splendido esempio di barocco edoardiano, cominciò a profilarsi all'orizzonte. Attraversato il portico, ad attendere i Bluebirds nel salone principale, quello delle grandi occasioni, c'era lui, il sindaco, impeccabilmente intabarrato in un gessato d'alta sartoria. Prima di prendere la parola, inforcò gli occhiali, si infilò le mani in tasca ed afferrò un piccolo pezzo di carta: doveva essere il discorso che, in fretta e furia, s'era preparato. Lo srotolò avidamente, lo fissò incessantemente per qualche secondo, prima di arrotolarlo nuovamente e posarlo sulla scrivania in legno massello. Probabilmente si era rinfrescato la memoria, ripassando i punti focali del discorso, o, anche, in uno slancio di genuinità, aveva preferito parlare con il cuore, a braccio, senza dar fiato a sillabe organizzate. Strinse la mano ad ognuno dei ragazzi, cominciando naturalmente dal capitano Fred Keenor. Poi fu il turno di Fred Stewart, il manager, e dell'attaccante Hughie Ferguson, il padroncino di Trixie, match-winner della finalissima con cui si intrattenne a parlottare per un minuto intero: a quel tempo il male oscuro che lo angustierà, portandolo a suicidarsi il 9 Gennaio 1930, non si era ancora manifestato. Particolarmente vigoroso fu l'incontro con il palmo nodoso di Tom Farquharson, “The Penalty King”, l'erculeo portiere noto per le sue eccezionali doti da pararigori, ma anche per il suo status di dual internationalist: convocato, cioè, sia dal FAI XI che dall'IFA XI negli anni attraversati dall'intestina lotta tra FAI, la federazione dello Stato Libero d'Irlanda, e l'IFA, ente parallelo incaricato di gestire il pallone in Irlanda del Nord. Seguirono strette di mano con i vari Len Davies, Ennie Curtis, il più piccolo della compagnia, Tom Sloan e Tom Watson. Diede poi una pacca sulla spalla al baldanzoso Sam Irving, “The pretty boy”, mediano tutto grinta e polmoni in possesso di un'ironia disarmante: basti pensare al fatto che, durante una tourneè in Sudamerica quando giocava nel Chelsea, bersagliato da un fitto lancio di arance, per tutta risposta alla folla incivile, pensò bene di raccogliere i frutti, sbucciarli e trangugiarli. Quindi toccò al vecchio Billy Hardy, Il veterano della banda, ricevere gli ossequi del primo cittadino. Che non a caso, per chiudere la prima parte del cerimoniale, aveva scelto lui, il veterano della banda: piuttosto tracagnotto e preso in giro dai suoi compagni perchè quasi completamente glabro, era a Cardiff dal 1911, da quando, cioè, il suo mentore Fred Stewart, versando venticinque sterline di tasca propria, se l'era portato con sè nel viaggio da Stockport alla capitale gallese. Il Lord Mayor, sinceramente emozionato nel stringergli la mano, dopo avergli bofonchiato qualcosa nel padiglione destro - sicuramente qualcosa di esilarante visto che il parco Billy scoppiò a ridere sguaiatamente - lo congedò appuntandogli al collo una medaglia così come aveva fatto con tutti i suoi compagni. Finalmente era arrivato il momento del solenne discorso: i Bluebirds ascoltarono interessati. Con la solita voce stentorea e convincente con la quale era in grado di tenere a bada anche gli avversari più agguerriti, il sindaco la prese alla larga, facendo un breve excursus sul magico cammino del suo Cardiff in quella FA Cup. Quasi a voler fare una sorta di incipit, ricordò, quanto una lacrima cominciava a rigargli il viso, il secondo posto in First Division ottenuto nel 1924, quando solo uno sfavorevole quoziente reti fece scivolare il titolo nella mani dell'Huddersfield Town, e la finalissima di FA Cup persa solamente due anni prima con lo Sheffield United. Poi, qui il tono si fece decisamente più enfatico ed incalzante, iniziò a snocciolare le tappe della splendida marcia dei Bluebirds: ricordò il successo con l'Aston Villa al primo turno, il blitz di Darlington di fine Gennaio, quindi menzionò, con visibile trasporto, il memorabile quinto turno, quanto i prodi gallesi si erano liberati in trasferta del Bolton campione in carica. Si soffermò, ghermì un bicchiere e si versò dell'acqua, prima di tracannarla in un'unica soluzione: una pausa, quasi una sorta di intervallo tra primo e secondo tempo. Lo sproloquio del prolisso Lord Mayor ripartì da quel Chelsea estromesso nel sesto turno con l'ausilio del replay (0-0 in casa Blues, 3-2 li dove garrisce spavaldo il drago gallese). Come in un crescendo rossiniano, le frasi del sindaco andarono a lambire la semifinale senza storia col Reading: al Molineux di Wolverhampton, impianto designato per la sfida, i Bluebirds demolirono i Royals con un rotondo 3-0. Mancava adesso solo l'ultimo capitolo di quella storia. Il sindaco sorprese tutti. Disse che era stato impossibile trovare le parole per descrivere quello che aveva provato quel pomeriggio. Con gli occhi visibilmente lucidi, si lasciò guidare dall'istinto e cominciò a narrare il suo pomeriggio, che non deve essere stato poi cosi tanto dissimile da quello vissuto dagli altri tifosi gallesi rimasti fuori dai novantatremila privilegiati che si erano potuti accomodare sulle gradinate dell'Empire Stadium, ovvero Wembley. Certo l'avversario era di quelli che facevan ribellare le vene ai polsi: l'Arsenal di sua Maestà Herbert Chapman.
Figlio della working class, suo padre lavorava in miniera, era diventato ingegnere e, a fronte di una non certo scintillante carriera da giocatore, era da coach che Chapman aveva regalato il meglio di sè stesso: artefice principale del ciclo d'oro dell'Huddersfield, capace di vincere la FA Cup nel 1922 e di trionfare consecutivamente in campionato nel 1924, soffiando il titolo proprio al Cardiff, e nella stagione successiva. Nel 1925, passato al timone dell'Arsenal, su felice suggerimento del visionario fromboliere Charlie Buchan, aveva partorito il sistema. Decodificando, da ineccepibile ermeneuta, la novella regola del fuorigioco varata dall'IFAB (si era passati dal cosidetto fuorigioco a "tre" a quello a due": nel senso che adesso, in favore di una maggiore spettacolarità del gioco, affinchè un attaccante si potesse considerare in gioco, bastavano solamente due difensori, anzichè tre, tra sè e la porta avversaria), per evitare alla difesa di finire alla mercè degli attaccanti rivali, l'aveva corazzata facendo arretrare il centromediano metodista e affidandogli contestualmente compiti di marcatura: elemento cardine del WM, la figura dello stopper iniziava a spopolare. Con questo modo di giocare, l'Arsenal di Chapman oltre a preconizzare il futuro, aveva conquistato una piazza d'onore in First Division nel 1926, alle spalle del solito Huddersfield, competitivo ai massimi livelli seppur orfano di Chapman, e una finale di FA Cup nel 1927, giunta al culmine di una stagione piuttosto tribolata in campionato: i Gunners non faranno meglio di un poco lusinghiero undicesimo posto. Il cammino in coppa nazionale, tuttavia, era stato impeccabile: dopo il pirotecnico 2-3 ottenuto nella tana dello Sheffield United, i Gunners avevavano avuto ragione del tignoso Port Vale solo al ritorno, quando ad Highbury la banda di Chapman liquidò gli indomabili Valiants con un tanto striminzito quanto esiziale 1-0. Era toccato quindi al Liverpool cedere il passo, senza ricorrere al fastidioso replay, ai Gunners in quel memorabile quinto turno. Alla semifinale, invece, i londinesi s'erano aggrappati ottenendo lo scalpo del Wolverhampton Wandereres, mentre ad indirizzare la semifinale di Stamford Bridge con il Southampton erano stati, con le loro zampate, Joe Hulme e Charlie Buchan, il capitano, un decorato della Prima Guerra Mondiale che, a conferma della sua intelligenza sottile - suo il lampo di genio grazie al quale il WM aveva visto la luce - una volta appesi i proverbiali scarpini al chiodo si riciclerà nel mondo del giornalismo, arrivando a partorire anche alcuni saggi sull'arte del coaching. Si era arrivati cosi alla finale. Il sindaco di Cardiff, indaffarato com'era tra mille faccende, non aveva potuto assistervi. Sugli spalti, comunque, non era mancato il solito nugolo di tifosi vip: c'erano il filatelico sovrano Giorgio V, il liberale David Lloyd George, uno che qualcuno anno più tardi magnificherà apertamente Hitler, farfugliando espressioni come "è il più grande tedesco vivente", o anche "è il George Washington tedesco", e Winston Churcill, all'epoca Cancelliere dello Scacchiere, una sorta di Ministro della Finanze in salsa inglese. Quando il "referee" designato per l'incontro, il signor. Bunnell per la precisione, diede il segnale d'avvio, il sindaco di Cardiff era lì, nel suo studiolo, seduto come sempre sulla stessa seggiola, foderata di pelle ormai sdrucita, sulla quale le sue natiche continuavano ad accomodarsi da oltre un lustro. Alle ore quindici in punto disse al segretario di non voler essere disturbato per circa due ore, poi quasi paralizzato dalla tensione si avvicinò all'altoparlante a collo di cigno mezzo impolverato che troneggiava su un tavolino di legno adiacente alla scrivania. La radio sarebbe stata la prossima tappa. Cominciò ad armeggiare con l'antenna, dirigendola a destra e a manca, mentre contemporaneamente agitava in modo frenetico tutte le manopole di quell'apparecchio a dir poco obsoleto. Poi, d'un tratto, udì le voci gracchianti di Dereck McCulloch e George Allison. C'era riuscito, nonostante non fosse un tipo particolarmente perspicace per quel genere di cose: s'era sintonizzato sui canali della BBC, emittente che per la prima volta avrebbe raccontato ai radioascoltatori le fasi di una finale di Coppa. Per la tensione non riuscì a sedersi. L'unica cosa che riuscì a fare fu infilarsi una sigaretta tra le labbra. Se la accese e in pochi istanti fu avvolto da una soffocante nube grigiastra. Attendeva notizie dal campo, anche se, per via di qualche interferenza, l'ascolto non fu fluido. Comunque, da quel che era riuscito a capire, la partita era governata dall'equilibrio, tanto che all'intervallo le reti erano rimaste inviolate. Il sussulto arrivò al settantaquattresimo. Che qualcosa di grosso stesse per accadere, lo intuì di cambio di marcia che registrò il timbro del tandem di commentatori scelti per l'occasione dalla ancora rudimentale BBC. Da cantilenante, il racconto si fece avvolgente. McCulloch e Allison argomentarono l'azione con dovizia di particolari. Sugli sviluppi di una rimessa laterale, la palla era giunta ad Hughie Ferguson. Il formidabile centravanti scozzese, prelevato nel '25 dal Montherwell, squadra con la quale aveva siglato carrettate di reti, si era andato ad infilare in autentico cul de sac. Braccato dagli avversari, decise comunque di tirare, anche se per la verità senza troppa convinzione. La conclusione, flebile, doveva essere facile preda di Dan Lewis, il portiere gallese dei Gunners. Questi, però, non è impeccabile nella presa: si accartoccia, abbranca la sfera, ma, forse tradito da una maglia madida di sudore, si lascia scivolare il pallone tra le mani. Incalzato da Len Davies, mica uno qualunque (il local boy di Splott è ancora oggi l'inavvicinabile miglior marcatore della storia dei Bluebirds), Lewis non riesce ad intercettare la sfera, nel frattempo ballonzolante sulla linea di porta: è 1-0 per il Cardiff. Forse la papera più famosa della storia della FA Cup. A Cardiff, in una City Hall ora meno fosca, il Lord Mayor abbozza un mezzo sorriso. E' conscio dell'impresa storica compiuta dai suoi. Gonfia il petto e corre a prepare il discorso con cui omaggerà la squadra al rientro da Londra. E' fiero dei suoi. Quello che non può sapere è che il Cardiff resterà, almeno fino ad oggi, l'unica formazione gallese con in bacheca la decana delle coppe inglesi.