CH’OSÈ ADD'ACCÙSSÌ

22/11/2017
DA UNA QUESTIONE PRIVATA A UN RACCONTO BREVE
 
Fossi un esegeta mi dissi, sollevando lo sguardo dal testo, in uno di quegli attimi accavallati in cui le immagini e le sensazioni indotte dalla lettura si affollano comprimendosi arrischiando le più disparate fantasie, direi che è proprio di un libro rappresentare e costruire coscienze. Poiché non lo sono, mi limito ad azzardare un'equivalenza metafisica e i suoi circa 300 grammi di carta di cui mediamente grava, li trasformo in una agorà, in cui, dal testuale narrato, ciascuno potrebbe riproporre un suo personale racconto. Come me, che stò per farlo...

«Aveva gambe lunghe e magre, cavalline, che gli consentivano un passo esteso, rigido e composto.»

Era di pomeriggio. Di quelli che il sole si dà prossimo ad impallidirsi. Come succede in quei luoghi, tardi, di aprile, quando il tempo muta colore facendo spazio a quel giallo cangiante di celeste arancio-grigiato che arrende il suo fulgore per diluirsi sino all’imminente pioggia detergente, che ti impasta nei suoi fragorosi suoni, e ti seduce.

Lo studio aveva la porta socchiusa. Entrai. Non c’era nessuno.

Il bruciatore di incenso, col suo occhio rosso, ravvivato dallo spiffero, esalava il suo acre odore, confuso di vernice e di colore impastato fresco sulla tavolozza, che si intravedeva in bilico sul cavalletto. C’era la radio, che da sempre trasmetteva i suoi programmi, senza preoccuparsi di sabotare i suoni, altrimenti provenienti da fuori. Era una vecchia Geloso. Di quelle in legno verniciato lucido, con due grosse manopole e una seria di tasti di plastica simil-avorio, che marcavano il suo aspetto simmetrico.

La “Stanza della pittura” - quel luogo intenso -, situata di fronte la porta di accesso, era di un buio incerto, brumoso. Pareva di quei luoghi sospesi a mezz’aria. Di quelli che i romanzieri inglesi di fine ottocento erano soliti descrivere. Un divanetto a due posti, delle sedie, una poltroncina di cuoio lucido, due librerie importanti di legno massiccio in stile Umbertino e qualche altra suppellettile l'arredavano. Non fosse stato per la ferita che aveva inferto lo scuro - sostenuta da tempo immemore - e che lasciava passare un lembo di luce non ancora diffusamente dilatata, sarebbe stato difficile, perfino per me che lo frequentavo con una certa assiduità, orientarmici. La scena, come accade per i posti fascinosi, aveva preso il sopravvento e finì col rapirmi.

Avevo, infatti, dimenticato il motivo per il quale mi trovavo là. Fu mio fratello, che nel frattempo sopraggiunse, a ridestarmi. Sua, infatti, la telefonata con la quale mi invitava allo Studio per aiutarlo a trasferire “un po’ di roba”. Che, tradotto, voleva dire: sistemare il “caos”. Diverse le cartelle che erano già state rimosse. Altre, spanciate, colme zeppe di disegni e di ritagli di giornali, ancora languivano aspettando il loro turno. Per il dispiacere di Aracne, evidentemente costretta a trovare nuovi approcci, iniziammo il lavoro. La massa di cose da risistemare era notevole. C’era di tutto! Arrotolate, che formavano solidi a sezione tronco-conica, delle tele ovalizzate, trattenute alla meno peggio da giri di nastro da imballaggio provato, che lasciava sfuggire lembi di cartoncino, non avendo ancora del tutto rinunciato alle sue funzioni di tenuta.

Di questi, alcuni avevano impresse annotazioni più o meno decifrabili per via del tempo che ci aveva tenacemente lavorato ingiallendole. Intuii trovarmi di fronte ai cartoni del pittore, ovvero di fronte al preludio di quell’oggetto perfetto che è il quadro! In tutto stimai una quindicina le tele. Presi una pausa e scontentando il mio "datore di lavoro" ne srotolai uno a caso. Erano lavori essenzialmente monocromi, e sul retro c'era scritto: “Studio per rappresentazione cromatica in bilico /1977”. Mi avvicinai con cautela, quasi timoroso. Sapevo di quanto fossero autenticamente ideologizzati gli anni che la data riportava, ai quali, probabilmente, con eccessiva esemplificazione gli storici hanno dato appellativo di "Anni di Piombo", liquidandoli come fossero monotematici e, a torto, trascurandone la complessità di contenuto. Quell’ “in bilico”, era annunciatore di un moto, il quale, contratto nella sua condizione di equilibrio cosciente, mi trasferiva un senso di inquietudine ma anche di contestuale curiosità. Osservai passando a considerare il sistema di linee che erano tracciate sulla tela: riferimento strumentale che intersecava la pittura. Il colore, nella sua dimensione metafisica, viveva comunque potente, nonostante la sua forzata riduzione indotta dalla estensione monocromatica. Fantasticai.

La ripresa delle ostilità, tra il pittore e la sua ossessiva ricerca, avveniva là. Era quello il campo di battaglia. Mi sentii un archeologo, di quelli che col duro lavoro di calcoli e scavi, resuscitano i caratteri di una civiltà, altrimenti destinata a restare sepolta. -Cui domo? Ma questa è un'altra qiestione! Per intanto quei dati erano là fermi, saldamente trattenuti nelle mie mani. Intuivo il valore, non solo quello iconico. Mi ricordai de “La confessione creatrice”, un testo di Klee, in cui l’artista trattava della forma e del colore nei corsi che teneva al Bauhaus di Weimar negli anni venti del secolo scorso, ma non c’entrava molto con quello di cui stavo disponendo visivamente.

Dopo quelle grandi superfici trasparenti, dalla grafia astratta, che avevo conosciuto qualche tempo prima, eccola le risposta al silenzio; alle domande dell’artista, che si chiedeva di andare oltre al pittura e tardava a farlo. Avevo di fronte la pittura, quella pura, liberata dai suoi attributi tradizionali, riconducibili a significati simbolici o autobiografici. Una pittura la cui sostanza, il cui valore è rappresentato da se stessa e non più del pittore. "La pittura dipingeva il suo divenire, la mano del pittore è posta al suo servizio." diranno più avanti gli storici dell'arte. “Io non rappresento nulla, io dipingo.” affermò l'artista torinese Giorgio Griffa

Ed azzardai: si tratta anche qui di Pittura Analitica? Vinta la reticenza, Vincenzo rispose dicendo che quei lavori erano il moto di ribellione verso le forme di Arte Concettuale, di Arte Minimalista, ancor più verso l’Arte Povera. Non che non ne riconoscesse le istanze, ma perché ree di aver generato, per il prevalente piacere del mercato, pseudo operatori, agevolmente mimetizzati dietro il manifesto di quei movimenti di cui, solo quegli autentici, volevano la Pittura messa da parte poiché ritenuta superata in quell'epoca di Avanguardia. “Prima viene l’uomo poi il sistema” asserì lo storico dell’arte Germano Celant, teorizzatore dell’Arte Povera (è a lui che si deve questa definizione), in un suo articolo pubblicato su Flash Art nel dicembre del 1967. Più che una gratuita critica, quella di Vincenzo, mi parve, la confessione (resa con termini a lui inusuali) di un disagio: quello che può esprimere, a ragione, colui a cui sono riconosciute doti e funzioni, ma che con uno strappo, gli vengono sottratte, da “invisibili e inconsistenti” operatori, osannati da mercanti e da galleristi per ragioni "sconosciute". «Bisognava proteggere l’arte da incursioni e restituirle l’idea, il sapere, il colore, la materia. Non lasciare campo libero a profeti improvvisati che ritenevano la pittura come gesto rappresentativo superato. L’essere un Pittore è una condizione sentimentale, un'attitudine, una vocativa innata. La soluzione? Fare pittura non un prodotto.».

Dunque, avevo di fronte ancora un’altra questione privata, solamente rivelata dalla pulsione pittorica e in una sensibilità che di lì a breve avrebbe dato origine a quel fenomeno artistico tutto italiano che fu la Transavanguardia. Allora, mi dissi, non è esclusiva di Fenoglio - lo scrittore partigiano che ha raccontato dei panorami e delle vicende di guerra nelle Langhe -, neppure di Vincenzo, avere questioni private, ma di tutti noi. In fondo, l’Arte cos'è, se non una questione privata fatta di verità complesse le cui variabili dimorano nell’esercizio del mutevole costume? Difficile leggerla? Si. Ancor di più immaginare di farlo oltre sistema, con inconsapevole anarchica purezza; in termini semplicistici, coi quali, inevitabilmente, si colma nel “Ma questo posso farlo anch’io!”.

 
a cura di Donato Claps
fonte aviglianonline.eu